Il report JP Salary Outlook dell’OCSE ha messo in luce un dato che non può passare inosservato: nel 2023, l’Italia ha registrato una retribuzione annua lorda media di 44.893 euro, ovvero circa 3.741 euro al mese. Questo segna un incremento dell’1,8% rispetto all’anno precedente. Ma dove si colloca il nostro Paese in un contesto internazionale? Si trova al 21esimo posto tra i 34 Paesi OCSE analizzati. In cima alla classifica, l’Islanda trionfa con un salario medio di 79.473 euro, seguita da Lussemburgo e Stati Uniti. Dall’altra parte, Grecia e Messico si posizionano tristemente tra gli ultimi, con salari medi che non superano i 16.600 euro. Che cosa ci dicono questi dati sulle disuguaglianze salariali globali?
Confronto con l’Europa
Quando mettiamo a confronto le retribuzioni italiane con quelle di altri paesi europei, i dati Eurostat offrono uno spaccato chiaro e preoccupante. In Europa, lo stipendio medio lordo annuo si attesta intorno ai 40.000 euro, mentre il netto si aggira attorno ai 28.000 euro. In Italia, purtroppo, il reddito lordo medio è di circa 33.000 euro, con un netto di 24.000 euro, valori che ci pongono al di sotto della media europea. I Paesi che brillano per retribuzioni elevate sono la Svizzera, la Germania e il Lussemburgo, dove i redditi superano i 50.000 euro lordi. Al contrario, Slovacchia e Romania fanno la triste figura di avere salari inferiori a 20.000 euro lordi. Come possiamo giustificare una simile disparità?
Un ulteriore aspetto da considerare è il carico fiscale in Italia, che è significativo: il 22,1% delle retribuzioni lorde viene destinato alle tasse, contro una media europea del 16,6%. Questo posiziona l’Italia tra i Paesi con la pressione fiscale più alta. Mentre nazioni come la Danimarca beneficiano di contributi previdenziali ridotti, in Italia l’impatto delle tasse sul potere d’acquisto dei lavoratori è davvero considerevole. Ti sei mai chiesto come questo influisca sulla vita quotidiana delle persone?
Stagnazione salariale e sfide future
Negli ultimi dieci anni, l’andamento delle retribuzioni italiane ha mostrato una crescita lenta: fino al 2019, l’incremento medio è stato dello 0,9%. La crisi del 2020 ha portato a un calo del 4,3%, seguito da una lenta ripresa nel 2021 e 2022. Quest’anno, però, l’incremento si è attestato solo al 2,5%, un valore ben al di sotto di quello di Paesi come Francia e Germania. Secondo il Rapporto Annuale 2024 dell’ISTAT, gli stipendi in Italia non hanno tenuto il passo con l’inflazione. Infatti, tra il 2021 e il 2023, i prezzi sono aumentati del 17,3%, mentre le retribuzioni contrattuali sono cresciute solo del 4,7%. Quali ripercussioni hanno queste statistiche sul potere d’acquisto dei lavoratori?
Fortunatamente, verso la fine del 2023 e l’inizio del 2024, si intravedono segnali di inversione di tendenza: gli stipendi hanno iniziato a crescere più rapidamente dell’inflazione. Inoltre, il numero di dipendenti in attesa di rinnovo contrattuale è sceso dal 53,6% al 34,9%, suggerendo un miglioramento della situazione lavorativa. È questo il segnale di un cambiamento positivo?
Disparità salariali e povertà lavorativa
In Italia, la povertà lavorativa colpisce in particolar modo chi ha retribuzioni basse e contratti precari, come i lavoratori a termine o part-time. Nel 2022, circa il 30% dei dipendenti italiani percepiva un reddito annuo basso, con percentuali più elevate tra chi ha contratti non standard. Il 35% delle famiglie italiane ha almeno un componente con un reddito inferiore alla soglia minima, aumentando così il rischio di povertà. Come possiamo affrontare questa situazione?
La stagnazione salariale è il risultato di vari fattori, tra cui l’inflazione e la diffusione dei contratti precari, con effetti devastanti per categorie vulnerabili come donne e giovani. Nel 2024, i salari in Italia continuano a essere influenzati da sfide significative. I salari reali, cioè quelli aggiustati per l’inflazione, rimangono inferiori ai livelli pre-pandemia. Secondo i dati OCSE, nel primo trimestre del 2024, i salari reali erano più bassi del 6,9% rispetto al 2019, rendendo l’Italia uno dei Paesi con il peggior calo tra le economie avanzate. Cosa possiamo fare per invertire questa tendenza?